Il tempo sottratto agli onesti. Sullo sfondo, la crisi politica.

Se, alla fine di questa girandola impazzita di nomi, ammantata sotto l’ormai palesemente fasulla questione dei soli programmi e contenuti “perché a noi non interessano le poltrone”.

Che ti verrebbe da dire: e allora non devi accettarne neanche una, di poltrona! Parla di contenuti e non giocare continuamente al rimpiattino, per ottenere ministeri di maggior peso e in grado di condizionare in modo considerevole le scelte sul Recovery Plan, in ragione del fatto che si configurano come ministeri ben più “ricchi”.
Ma, al contempo, guardando le cose per ciò che realmente sono e non per l’etichetta che gli si affibbia, pensi: ma cosa significa “a noi non interessano le poltrone”? Se devi agire all’interno delle istituzioni, non devi necessariamente ricoprire un ruolo, un incarico (sì, certo con “dignità e onore”, ché ormai questo art. 54 della Costituzione, di cui tutti si riempiono la bocca, sta quasi decomponendosi per quante volte è stato tirato in ballo!)? Se vuoi ragionare sui contenuti, non devi avere una posizione attiva all’interno di quella macchina che i contenuti deve tradurli in azioni?
Perché altrimenti, a voler essere chiari e a voler sgomberare il campo dalle ambiguità, sarebbe stato sufficiente restare ad affrontare temi e contenuti all’interno dei vari centri studi o dei vari forum o delle varie tavole rotonde o dei vari think tank: i luoghi in cui le intelligenze vive del Paese (di ogni Paese!) dovrebbero tracciare, a conclusione dei loro lavori, le migliori strade possibili che uno Stato dovrebbe intraprendere per affrontare al meglio il futuro, con uno sguardo prospettico su ciò che dovrà essere, appunto, e non su ciò che si dovrà tentare di conservare (semplicemente per pararsi le spalle!).

Dato che qui, però, non parliamo di lunghi confronti e dibattiti; dato che qui non siamo astanti di quelle interminabili tre-giorni di studio in cui si avvicendano i vari relatori e dove, alcuni con più enfasi ed efficacia, altri con sguardo spento, declamano con entusiasmo o leggono in modo impomatato la loro relazione. Dato che qui siamo all’interno delle massime istituzioni del Paese, è evidente che gli incarichi, che i ruoli, che “le poltrone” (sì, “le poltrone”: per quanto sia svilente questa definizione, che delegittima il peso, la responsabilità, il sudore e il sacrificio di un ruolo) contano!
E sarebbe anche il caso che questi slogan populisti, da chi critica il populismo, quando gli fa comodo, ma lo accarezza, quando il momento è propizio, venissero messi da parte. Anche solo perché sarebbe un indubbio sintomo di rispetto nei confronti dell’intelligenza degli italiani.

Dicevo, se alla fine di tutta questa pantomima, dovesse saltare definitivamente (non venendo confermata nel nuovo ipotetico Conte-ter), fra le varie “poltrone”, quella del Ministero del Sud, ricoperto in questi mesi da Peppe Provenzano, (come, da quel che si legge, sembra accadrà), avremo la prova provata che l’Italia è il Paese in cui le idee, quando ci sono, e le competenze, quando si sanno usare, non possono trovare spazio. E quando, incredibilmente, capita che vengano alla ribalta è perché si è fatto, da parte di taluno, qualche errore di calcolo, sottovalutando (forse) chi veniva spinto sotto le luci del palcoscenico, oppure si è semplicemente dato poco peso al ruolo che al competente di turno si stava andando a far ricoprire. Ché è pur vero: in fondo, una poltrona è una poltrona, dipende poi da come la riempi, dalle idee, dalla storia personale (e politica) e dai modi con cui la caratterizzi, quella poltrona.

Devo essere sincera. Quando venne fuori il nome di Peppe Provenzano, non sapevo neanche chi fosse. Ho imparato a conoscerlo in questi mesi, apprezzandone le idee, le riflessioni e il modo di esporle: con fermezza, ma senza l’arroganza del bullo di periferia.
Lui, che dalla “periferia dell’Impero” (un piccolo paesino siciliano, culla della sua infanzia e prima adolescenza) è arrivato, grazie ai suoi studi e alla sua passione politica, al centro, al cuore, alla capitale di quello stesso Impero. Lui, che sa cos’è il Sud, perché nel Sud c’è nato, il Sud l’ha vissuto, il Sud e le sue dinamiche le ha studiate e analizzate. Lui, che sa cosa significa farsi ore e ore su “treni scalcinati” per arrivare da un punto all’altro di una qualunque regione del Sud, godendosi indubbiamente il meraviglioso paesaggio di cui la Natura ha almeno avuto il buon cuore di farci dono, ma che sottraggono tempo inutilmente.

Ed è il tempo a segnare la differenza fra chi è ricco e chi è povero: il tempo.
Al di là di tutti i metodi e le tecniche che si possano adottare per ottimizzare il tempo, se hai la disponibilità economica, hai già gran parte degli strumenti che ti consentono senza sforzi di ottimizzarlo, quel tempo. E di poterlo impiegare per raggiungere altri obiettivi, senza doverti lambiccare il cervello sulla tecnica adeguata con cui poterlo ottimizzare!

E chi vive al Sud lo sa bene: il tempo traccia una linea sottile ma insuperabile fra miseria e progresso.

E lo sanno bene anche la ‘Ndrangheta, la Mafia, la Camorra.
Qual è la cosa più preziosa che sottraggono agli onesti, queste complesse architetture criminali? Il tempo! Sì, proprio il tempo.

E non suoni strana questa affermazione, perché è ciò che fanno quando costringono i dipendenti delle loro imprese di facciata, specchiate e “legalmente integre”, a lavorare come muli per far risultare sulla busta paga un certo salario o un certo stipendio, che, visto adesso l’obbligo di tracciamento, gli viene perfino versato sul conto corrente, ma costringendoli poi a restituirne una quota: ché il tempo del dipendente delle imprese di facciata degli ‘ndranghetisti è poca cosa, figurarsi il loro tempo lavoro, che anzitutto è una concessione che gli viene fatta. Devono essere riconoscenti che lavorino in quelle società: banche, supermercati, negozi, locali. Che oltretutto, di solito, sono sempre quelli più in voga e alla moda del momento.
É il tempo, quello che sottraggono agli onesti quando, in combutta con quella porzione di “politica” (anche e soprattutto locale, ma non solo!) asservita al loro potere, creano tutte le condizioni affinché le infrastrutture al Sud non abbiamo modo di trovare adeguato sviluppo. È il tempo, che sottraggono agli onesti, quando, in un intricato e imprescindibile rapporto con la corruzione e l’infedeltà di taluni pubblici dipendenti, fanno in modo che la pratica per una concessione edilizia, per un nullaosta (necessario, ad esempio, per far proseguire procedimenti amministrativi complessi nel loro iter!), per un cambio di residenza stia lì, inspiegabilmente, a mettere radici. E sì che, ad un certo punto il legislatore nazionale, visto anche il problema dei generici tempi elefantiaci della PA, ha deciso di fissare un termine per la conclusione dei procedimenti amministrativi, con conseguente indennizzo da ritardo ed eventuale risarcimento per danno da ritardo, ma non è sicuramente questo che frena, ancora oggi, la sapiente azione delle mafie, quando mirano per uno scopo ben preciso a sottrarre il tuo tempo, il tempo degli onesti.
Perché più tempo ti viene sottratto, minori possibilità avrai di mantenere la mente libera per pensare a come svincolare una terra intera dai lacci e dai lacciuoli di tutto ciò che ha il tanfo inconfondibile delle mafie.

Mi si dirà: ma ormai le mafie hanno radici ovunque.
E non posso negarlo. È così, è vero! Le mafie sono al Sud, come al Nord, come in diversi altri Stati europei ed extraeuropei.
La differenza sta nel fatto che il Sud è la casa primigenia: è la culla, è il porto sicuro a cui tornare sempre, senza mai essersene andati.
L’emigrazione mafiosa è strumento indispensabile per il business: le mafie vanno dove i soldi girano. Questa è la regola. Al Sud, certo, anche qui arrivano i soldi di questo o quel progetto; questo o quell’appalto; questo o quell’investimento: e ovviamente, in questi casi, l’interesse economico richiama inevitabilmente l’attenzione delle mafie.
Ma in queste terre é anche questione di controllo: no, non mero controllo del territorio, che ovviamente non manca, ma controllo delle menti e della mentalità.

In un paese, in un paesino o in una cittadina meridionale qualsiasi, non vi è alcuno a cui chiediate che non sappia il cognome delle “famiglie” che governano la zona. Persone che nella vita di tutti i giorni, forse (se sei fortunato/a), non ti capiterà di incontrare nemmeno una volta, se vivi in una città o in un paese abbastanza grande, ma la loro presenza aleggia come un fantasma fra le vie della città e del paese, divenendo un tutt’uno con i sassi, gli alberi e l’aria di quei luoghi. Come se fosse un’entità indissolubilmente legata a quella terra, contro cui combattere richiede coraggio, sacrificio, rischio e consapevolezza del possibile fallimento: tempo, anch’esso, che seppure utilmente usato, si è costretti a sottrarre ad altro per cui varrebbe anche la pena lottare.
Il controllo subdolo della mente e delle azioni che le mafie portano con sé è rappresentato dal fatto che, a fronte di una porzione di cittadinanza (sempre crescente, fortunatamente!) che, in parte in maniera attiva e in parte più in sordina, non accetta l’idea che perfino i sassi puzzino di mafia, tanta altra parte considera quasi inevitabile vivere in un contesto in cui l’antistato si è ormai così infiltrato nel tessuto del territorio da confondersi con lo Stato. Si considera normale e quasi inevitabile che si vada ad ordinare la torta per il compleanno alla pasticceria Tal dei Tali, che sì, sarà pure di quella famiglia di mafia o ‘ndrangheta (direttamente o tramite teste di legno), ma è anche la migliore in città o in paese, e poi ci lavora (come dipendente) tanta gente onesta, che merita di ricevere almeno quella minima porzione di stipendio. O, ancora, si considera normale e inevitabile andare in quel supermercato, seppure tutti sanno chi sia il proprietario o, meglio, chi siano i soci della s.r.l., ma è pur sempre il supermercato più rifornito e con gli insaccati e la frutta migliori! Lo abbiamo visto durante il lockdown, in questi mesi di pandemia: al di là di qualunque considerazione di fondo sulle politiche aziendali di questa o quella catena di supermercati, anche all’interno della medesima compagine, i supermercati che rientravano sotto una certa sfera di controllo riuscivano ad avere, meglio e prima di altri, gli scaffali pieni.

Negli ultimi decenni, ci sono indubbiamente delle piccole realtà locali anche nel Nord del nostro Paese, dove quella consapevolezza arrendevole si è diffusa nelle relative comunità, semplicemente perché si sono innescate quelle medesime dinamiche che da lungo tempo operano al Sud. Dove da adolescente ti capitava di frequentare il liceo, sapendo che nella tua stessa classe o in quella accanto sedeva il figlio del mafioso o dello ‘ndranghetista di turno. O, una volta diventati adulti, ti capita di riconoscere fra i professionisti più in mostra ed esaltati di una determinata cittadina, anche in virtù di solidi curricula studiorum e professionali consolidatisi all’estero, proprio quegli stessi figli o figlie del mafioso o ‘ndranghetista di turno. Giovani professionisti dal parlare forbito, dai modi gentili e dall’abbigliamento impeccabile, nelle cui pagine social campeggiano foto e frasi di Falcone e Borsellino, critiche alla politica corrotta e disappunto per la miseria che pervade tanta parte dell’umanità. Rari sono i casi di eredi di famiglie di ‘ndrangheta o mafia che si dissociano dalle famiglie d’origine: di Peppino Impastato non ne nascono tanti, purtroppo. Il più delle volte quell’educazione, quell’istruzione, quelle apparenti battaglie di giustizia ed equità sociale sono la seconda tipologia di facciata specchiata, che viene cronologicamente dopo le società che svolgono attività legali, attraverso cui le mafie non intessono più semplicemente rapporti con le istituzioni, ma all’interno delle istituzioni (ad iniziare da quelle locali) ci entrano di diritto, in virtù anche di quelle competenze professionali acquisite all’estero, che i figli capaci della gente onesta, il cui tempo ha dovuto racimolarlo mentre le mafie cercavano di sottrarglielo, per riuscire a guadagnarsele devono sudare 7 camicie. Perché è sempre più difficile quando la strada sei tu a doverla tracciare, invece di vedere gli altri spianartela per tuo conto.

Non metto in dubbio che anche chi al Sud non sia nato possa ben comprendere la realtà meridionale, attraverso studi e analisi approfondite delle questioni. Però, quella capacità di cogliere le sfumature di un cenno del capo o del comparire all’improvviso (o permanere per un certo lasso di tempo) sulla soglia di casa, al passaggio del forestiero, di quelle persone che nei piccoli paesi fanno da cani da riporto delle informazioni ai “controllori locali”, sono abilità che si acquisiscono crescendo in quelle terre e che ti restano dentro anche quando poi, quelle terre, te le lasci alle spalle.

Tornando all’attualità politica e a questa crisi politico-istituzionale, salta all’occhio il fatto che ormai si stravolgono anche le prassi e, nel quadro di un mandato esplorativo affidato alla terza carica dello Stato, si imbastiscono tavoli di confronto in cui si deve giungere a concordare linee comuni da seguire fra partiti che, fino al giorno prima, viaggiavano assieme, con l’intenzione di delineare un programma da sottoporre all’attenzione di un futuro Presidente del Consiglio, il cui nome, però, ancora non si fa! Perché di nomi non si deve parlare, ma – attenzione, attenzione! – nessuno mette veti su nessuno: quindi, un Conte-ter è possibile, sì, ma più che voluto, da una parte, è semplicemente tollerato, perché alla fine – si aprano bene le orecchie! – può anche andare bene un altro nome per un governo politico o un altro nome per un governo istituzionale.
Come se il futuro PdC incaricato potesse arrivare, trovarsi davanti un programma deciso da altri e da buon soldato semplicemente eseguire gli ordini.

Se non sbaglio, questa fu una delle critiche più ferree che venne scagliata dalla sinistra (e dalla sinistra-sinistra e dal centro-sinistra e dal centro-centro-sinistra) contro il governo giallo-verde/Conte1.
E allora, poiché qui nessuno scende dalla montagna del sapone, in questi giorni, durante il mandato esplorativo affidato a Fico, si è parlato di punti programmatici, ma senza la necessità di redigere il benché minimo documento scritto (al limite si abbozza un verbale, ma forse no!) e senza fare nomi, che nel frattempo, però, saltano fuori come conigli dal cilindro nei tavoli di trattative paralleli (quelli veri!).
E poi cosa succederà? Il futuro Presidente del Consiglio incaricato, semmai ci sarà (sempre che non si vada ad elezioni a giugno!), formalmente (ché forma e sostanza, a questo punto, non viaggiano più assieme!) prenderà in mano le redini e con lui, allora, si potrà buttare giù qualcosa di scritto per dimostrare che quella sarà la direzione condivisa, anche perché ormai i nomi già si saranno fatti e non si dovrà creare tutto questo fumo per nascondere l’arrosto.

Onestamente, ho i miei dubbi che in un eventuale futuro governo istituzionale, se dovesse saltare la possibilità di un Conte-ter (che, seppure dietro le quinte, almeno prende parte alle trattative!), e dovesse venire alla ribalta (come da alcuni pronosticato, forse anche con il desiderio sotteso di bruciare dei nomi) un uomo o una donna terzi e di primo piano come PdC, questi possa fare il buon soldatino (o la buona soldatessa) e seguire sic et simpliciter la linea dettata dai partiti, durante questo mandato esplorativo di Fico, piuttosto che farsi Comandante e guidare il vascello con le sue forze e competenze, facendosi seguire dalla squadra.

Ad ogni modo, qualunque sarà il percorso che questo torrente impazzito, che è la politica italiana in piena pandemia (salvo, sempre, nuove elezioni), seguirà di qui a poco: se, in un eventuale “(sostanziale) rimpasto” di governo (Conte-ter), in cui nel decidere di muovere semplicemente questa o quella casella, si opterà per sostituire, fra gli altri, Provenzano al Ministero del Sud (salvo che lo si voglia sostituire con Gaetano Salvemini: cosa improbabile, perché anche la medicina non ha più armi di recupero davanti alla morte. Ovviamente, lungi da me paragonare Provenzano a Salvemini: non mi azzarderei mai e, vista l’onestà intellettuale di Provenzano, ritengo non lo penserebbe neanche lui!) e per riempire in vario modo qualche altra casella (ovviamente, sempre perché le poltrone non interessano a taluni!). Se, cioè, in un tale rimescolamento raffazzonato, riprendendo il filo del discorso sopra avviato, dovesse avere luogo una tale sostituzione al Ministero del Sud, salvando e proponendo ben altre “poltrone”, avremo la prova provata che l’Italia è il Paese in cui se, malauguratamente, competenza, professionalità e idee ben precise trovano un qualche riconoscimento a livello politico, accade comunque per poco.
Perché, nel breve termine, le idee e le competenze dovranno cedere il passo a chi possiede il capello giusto, il vestito e le scarpe adatte, la voce cantilenante di chi sembra dire messa o ripetere la lezioncina imparata a memoria, il viso accogliente o il sorriso da birbante che la sa lunga: perché se riesce a mettersi in saccoccia questi 4 politicanti (lui che politicante lo è da sempre, ma è un dettaglio!), vuoi che non riesca a mettersi in saccoccia i leader europei e a fare i nostri interessi?

A questa domanda retorica io oserei rispondere: no. Perché usare (bene o discretamente) le tattiche politiche (chè le strategie sono qualcosa di ben più complesso) non significa necessariamente saper progettare il futuro di un Paese nell’interesse del Paese stesso e del Paese tutto.

Gli ottimi leader non sono mai quelli che fanno un culto (talvolta anche macchiettistico) della personalità, al limite anche paragonando i propri “passatempi” a quelli di gente come Blair, che a quei “passatempi” si è dedicato solo a conclusione del suo impegno strettamente politico-istituzionale per il proprio Paese (fermo restando il fatto che Blair, tra le altre cose, con la sua terza via blairiana, a mio avviso, ha contribuito a erodere il bagaglio di idee di sinistra, che a sinistra si sarebbe dovuto indubbiamente rivedere, riadattare, riformulare, e non annacquare da uno scranno posto al centro, come invece è accaduto in Inghilterra con ripercussioni nel resto d’Europa e anche in Italia).

Si badi bene, non faccio una difesa fine a se stessa di chi in questi mesi ha ricoperto il ruolo di Ministro del sud per partito preso, anche perché ho imparato a conoscerne e apprezzarne le competenze e le capacità politiche di recente, appunto.
Alla fine, che cambino pure il titolare di questo dicastero, ma ciò che mi inquieta è il fatto che si debba necessariamente lasciare qualche posto di primo piano a chi ha il modo giusto di vendersi al pubblico, piuttosto che a chi ha il modo giusto di ragionare, magari in maniera più pacata, silenziosa e istituzionale.

Moro e Berlinguer erano due uomini politici diversi (che purtroppo ho potuto “conoscere” solo attraverso i libri di storia, i documentari e i racconti in famiglia, quando, soprattutto durante la mia infanzia e adolescenza, si richiamava la politica di quegli anni), però erano due uomini di infiniti pensieri e idee, ma di azioni pesate e parole ponderate.

Oggi, in tanti, invece, pensano poco e parlano molto, a voce o tramite social: tweet, dirette fb o newsletters che siano.
Si accusano a vicenda di non aver studiato questo o quel documento; di aver fatto un compitino di terza media piuttosto che un programma di investimenti per le future generazioni; o di aver prima accusato un PdC di aver causato un vulnus alla democrazia con i suoi dpcm e compagnia cantante, per poi andare ad intervistare (prestazione a titolo oneroso e non gratuito!) come simbolo del nuovo rinascimento un leader (anzi un principe!) che la democrazia non sa (o meglio, non è interessato a sapere) cosa sia, né tantomeno il rispetto della vita umana e della libertà di espressione: il che è evidentemente un ossimoro ontologico e politico!
Si accusano reciprocamente di tutto: fanno congiure di palazzo, ne sfuggono, giurano di non voler più aver nulla a che fare l’uno con l’altro, ma poi devono tornare sui loro passi perché lo spazio è quello, le sedie sono contate e lì si deve ballare, ché se la musica si ferma e si è troppo lontani, si perde la sedia. E poi lì, sì, che la festa è finita. Si spengono le luci. E si deve tornare a fare i conti con la vita reale.

Quella in cui vai a fare la spesa e ti rendi conto che lo scontrino è più pesante in media del 5%, pur avendo comprato le stesse cose che compravi in era pre-Covid.
E mentre pensi a tutto questo – con le buste pesanti della spesa, i cui manici passi dalle mani all’avambraccio (a mo’ di borse da sfilata, ma ben più pesanti di quelle e solo al fine di meglio bilanciare il peso delle sporte della spesa!) e ti maledici perché sei a piedi – scorgi, in prossimità dell’ingresso del supermercato, quella signora dal viso tondo, ma scavato dalle rughe del tempo e della stanchezza, che hai notato in più di un’occasione e che cerca di sistemarsi alla bell’e meglio una mascherina palesemente usata chissà quante volte: ma per mera necessità (economica!) e non per stupide e irrazionali posizioni no-vax! Sta lì e con fare impacciato finisce di contare i soldi, che chiude a pugno nella mano, prima di entrare nel negozio.
E così, mentre arranchi nel tuo percorso dal supermercato a casa con le buste, la vedi passare, superandoti, mentre tiene in una mano un pacco di pasta e nell’altra una confezione di pan-carré, liberi, senza una busta a coprirli (chè adesso pure le buste costano 10 centesimi!). E, mentre procedi nel tuo cammino e segui con lo sguardo quella signora che con fare concitato percorre la sua strada, stringendosi le due confezioni al petto, ti pervade un certo imbarazzo per esserti maledetta, pochi minuti prima, per il fatto di dover raggiungere casa a piedi con le buste pesanti.
Perché quelle buste, appunto, fortunatamente per te, sono pesanti.

Italia, 2 febbraio 2020

ph. arialmac

Una opinione su "Il tempo sottratto agli onesti. Sullo sfondo, la crisi politica."

  1. Quanto ho appena letto mi induce a non poter aggiungere alcuna parola che non sia stata, così magistralmente, riportata. Una panoramica, a tratti finemente spietata, di una realtà così complessa, così profondamente intrisa di varianti culturali e sociali, così apparentemente fluida, ma nel suo profondo, statica e perforante. Realtà in cui la tradizione di un popolo, o di parte di esso, è inoculata con il filtro del finto vittimismo e/o di un populismo magnetico, che attrae, distorce, camuffa, inginocchia, tradisce, fa sprofondare ogni lume di resistenza, fisica e morale.

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